
Partiamo da cosa parla. Dunkirk è la pronuncia inglese di Dunkerque, cittadina balneare francese dove tra il 26 maggio ed il 3 giugno 1940 si svolse l’omonima battaglia nella prima fase della grande offensiva in Occidente, sferrata dalle truppe tedesche della Wehrmacht, autorizzata da Hitler a partire dal 10 maggio, durante il primo periodo della seconda guerra mondiale.
La battaglia, momento fondamentale del piano di ritirata Dynamo fortemente voluta da Churchill, viene ricordata, soprattutto dagli inglesi, come il momento più basso e, allo stesso tempo, più alto della guerra contro l’esercito tedesco. Più basso perché si trattò di una drammatica ritirata del BEF (British Expeditionary Force) dal territorio alleato di Francia. Più alto perché, nonostante l’esercito fosse a un passo della sconfitta, riuscì a ritrovare uno spirito nazionale, che in seguito sarebbe stato il baluardo della resistenza contro gli attacchi tedeschi e il punto di partenza per il contrattacco contro l’asse nazi-fascista.
Questo è Dunkirk nell’immaginario britannico. È il momento della rinascita dello spirito inglese che, dalla frammentazione in singoli individui, mosso solamente dal primordiale spirito di sopravvivenza, ritrova lo slancio verso un’unità quasi mistica: lo spirito di un popolo e di un’ideale di democrazia, contro il male assoluto dell’asse nazi-fascista. È la chiamata non solo alle armi, ma all’unità di un popolo.
L’autore, Joshua Levine, si pone l’obbiettivo di narrare questo confluire dei ruscelli delle individualità nel mare della totalità dell’ideale, ma non lo fa da storico, cioè dall’alto, con la consapevolezza di chi il risultato già conosce, ma dall’interno dei singoli ruscelli, di chi nella contingenza è spinto solo dall’istinto di sopravvivenza. Dunkirk non è un’apologia della democrazia, né la fenomenologia dell’incarnazione di un’idea, non si srotola con l’andamento del ricercatore calligrafico di eventi da collegare alla luce di un risultato noto, né indugia nella celebrazione e nel trionfo.
È la narrazione di storie di uomini in carne e ossa, trascinati da qualcosa più grande di loro, che a volte percepiscono questo essere sovrastati da un dover-essere, ma che più spesso rimane loro oscuro, reso inaccessibile dall’istinto di sopravvivenza. E infatti nessuno dei personaggi conosce il piano di evacuazione Dynamo, sanno solo che devono seguire gli altri e questo fanno, nella speranza di salvarsi.
Joshua Levine ci racconta una generazione di giovani usciti dalla grande depressione e alle prese con una nuova percezione di se stessi, spesso ribelle rispetto alla percezione delle generazioni precedenti, quelle che avevano vissuto sulla pelle la prima guerra mondiale, ma non lo fa in modo antropologico o sociologico, anche se gli odori di antropologia e sociologia si avvertono, ma quasi da documentarista: fornisce frammenti di ripresa del reale con l’intenzione di “sporcarla” il meno possibile, lasciando al lettore il compito ultimo di formarsi un quadro.
Atti più o meno volontari e consci di eroismo, alternati a gesti di viltà e follia. L’inspiegabile rinuncia di Hitler di affondare il colpo decisivo all’esercito inglese, dandogli il tempo di riunirsi a Dunquerke e da lì ritirarsi in patria, con i mezzi più disparati, dalle navi della marina inglese alle imbarcazioni turistiche civili guidate da normali cittadini, mossi dal senso di dovere e servizio.
La vita messa alla prova dell’estremo caos, all’interno del quale balugina una fiammella e un sentore di razionalità.
Dunkirk contiene in apertura un’intervista a Christopher Nolan, che da questo libro ha tratto spunto per la sceneggiatura del film nelle sale italiane a partire dal 31 agosto. Un film che, parole del regista, va considerato un horror e non un film storico, perché pone lo spettatore di fronte alla paura in prima persona, una paura fatta di attesa dell’incognito di un nemico tedesco che quasi mai entra in campo.
Dunkirk di Joshua Levine non è un romanzo, ma neanche un saggio storico, o una monografia. Ma allora cos’è?
È un urlo silenzioso e compostamente british di chi quei momenti li ha vissuti e che sembra volerci dire: «Eravamo solo dei ragazzi, lottammo per tornare a casa con gli ideali di eroismo infranti sugli scogli dalla realtà della guerra. Tornammo con la paura di essere vigliacchi e venimmo accolti come eroi.»
La vita è strana. Ma la guerra lo è di più!