
Man finds partner’s suicide note in fridge magnets.
Dove si racconta come ridere in silenzio sia meglio dello Xanax.
Caro lettore, sento l’obbligo morale di spiegarti il motivo delle righe che seguono. L’amico di penna Salvatore Anfuso mi ha chiesto un post sul suicidio. Tutto ha avuto inizio per via dei ringraziamenti che gli ho scritto in privato, per aver pubblicato un post su come superare pensieri suicidi , che ha toccato un mio nervo scoperto.
Ecco la sua risposta:
ti andrebbe di scrivere un guest-post in cui raccontare la tua esperienza? Anche in anonimato. Visto che, esporsi su certi argomenti, denudare certi vissuti, è comprensibilmente rischioso, difficile, forse anche pericoloso.
Siccome bisognerebbe poter dire ai bruchi che quel dolore che sentono, se prima non vengano schiacciati da qualche bambino in bicicletta, serve a diventare farfalle, ho deciso di raccontare l’esperienza di uno che il suicidio l’ha fatto ed è morto.
La richiesta di Salvatore è arrivata, per quegli strani sincronismi della vita, in un momento in cui mi sto molto interrogando su un mio compagno di viaggio, il pensiero del suicidio.
È una malattia? E se sì, esiste una cura? È coraggio? È vigliaccheria?
Non sono né uno psicologo, né un medico, quindi parlerò solo della mia personalissima esperienza, senza alcun intento didascalico e invito a prendere le mie parole per quello che sono, uno scaccolamento. C’è qualcosa di male nello scaccolarsi? È così bello respirare meglio, dopo.
Il mio suicidio l’avevo pianificato per benino e a modino, ché neanche l’ordine maniacale di Ikea. Avevo calcolato tutto, giorno, orario e ponte della ferrovia. Dovevo farlo. Non vedevo altra via d’uscita rapida dall’insostenibile rumore in testa, peggio della musichetta di plastica di sottofondo dei centri commerciali.
Il rumore, miserabile acufene, era iniziato ormai da anni in veste di insoddisfazione latente e continua. Un sassolino nella scarpa, che per i primi passi pensavo di poter sopportare, perché non mi andava di fermarmi per slacciarmi la scarpa e controllare. Pigrizia? Può darsi, visto che sono talmente pigro che se dovessi vincere il primo premio della pigrizia di un milione di euro, non andrei a ritirarlo, per pigrizia. Un’insoddisfazione senza oggetto, una linea melodica dissonante che nel tempo si è trasformata in sinfonia svilente e melmosa.
Se lo guardo ora, quel continuo narrare di sottofondo altro non era che lo sforzo di tenere tutta la vita stretta tra le mani, nella speranza che quel continuo intrecciare fili narrativi potesse sfociare finalmente nell’apparire del senso della mia esistenza. Ed il senso della vita coincideva, nella mia idea, nell’atto di controllare, uno sforzo che solo Sisifo può capire, infatti l’altro ieri mi ha scritto una mail, in cui mi comunica che anche lui si è stufato ed ha avviato le pratiche per aprire una scuola di stuntmen a Los Angeles. Con il passare del tempo e con l’ingrandirsi della massa del trascorso, tenere insieme il passato dei rimorsi, dei sensi di colpa, dei fallimenti, con il futuro dell’incertezza e della proiezione in avanti del dolore vissuto, stava diventando troppo faticoso per un fisico da lanciatore di coriandoli come il mio, al punto che il mio corpo, per alleggerirsi, mi costringeva a vomitare quasi ogni mattina. Ed alla fine sono esploso.
Nel mio caso ci sono state due spolette, il divorzio e la morte di mia madre, ma adesso so che avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, anche un’unghia incarnita. Qualsiasi evento non padroneggiabile avrebbe messo in ridicolo lo sforzo della continua narrazione che mi facevo per tenere-sotto-presa l’insensato di cui sono fatto. Cercare il senso era aggirarsi in un labirinto senza uscita, più cercavo motivi per vivere e più trovavo solo strade chiuse. Che cul… de sac.
Eppure non c’era nulla che lasciasse presagire l’esplosione. Ero sposato e, quando arrivava l’insoddisfazione, mi fustigavo perché non si può essere scontento quando si ha tutto quello che per contratto dovrebbe servire a “controllare”. Allora ho provato anche la via dei farmaci, ma il risultato è stato solo quello di sentirmi talmente ovattato, da non avere le forza di tenere-sotto-controllo e scambiare la debolezza per soluzione.
Divorzio. Morte di mamma. Rumore. Troppo rumore. Assenza di senso. Soluzione rapida? Suicidio? Urge strizzacervelli.
Allora ho cominciato ad andare da uno psicanalista, anche su indicazione della mia ex moglie che, come condizione di una nuova possibilità di inizio, giustamente aveva posto la certificazione di sanità mentale. Il suo mantra era diventato “devi prima amare te stesso se vuoi amare gli altri”. Per me era diventato il ritornello della hit estiva. Non ce l’ho né con la mia ex moglie, né con lo piscanalista, due bravissime persone a cui auguro tutto il bene possibile, ma con me non ha funzionato.
La mia vita era un muro che mi stava crollando addosso. Durante le sedute, lo psicanalista mi aiutava a sostenere il muro. Sentivo lo sforzo dimezzato e, come recita un proverbio atlantideo, “sforzo dimezzato quasi sollievo”. Lo psicanalista mi vendeva il tempo per recuperare un po’ le forze. Per un po’ le maggiori energie mi facevano sostenere il peso del muro più facilmente, ma poi si riaffacciava ed ero costretto a tornare da lui, in un loop infernale.
E allora ho deciso che poteva bastare così ed ho pianificato tutto: giorno, ora, luogo.
Poi è capitato. Sono morto!
Ho realizzato che ero schiavo del mio pensare. Che non vivevo, ma “pensavo” di vivere. Ma se uno è schiavo del proprio pensiero, allora non può essere quello stesso pensiero, perché altrimenti non potrebbe rendersene conto, no? Ma se non sono il mio pensiero, allora chi sono? Sono forse quel “rendermi conto di una non corrispondenza”? Può darsi allora che io sia quella consapevolezza di abbandonare quel me stesso? Ma lasciare se stessi non è, in un certo senso, morire? Mamma mia che trip. E scusami se non so spiegarlo diversamente, ma è come spiegare il sapore del vino, impossibile se non l’hai mai assaggiato.
Morire, per me, è stato assaggiare che i motivi per farla finita, per far smettere il rumore, sono gli stessi per cui vale la pena di vivere. Una grandezza negativa, vicino alla stessa grandezza, ma con segno positivo, danno zero e lo zero è il silenzio, l’opposto del rumore. È stato in quel momento che sono morto, quando per la prima volta ho abitato il silenzio, quando ho realizzato che senso e non-senso sono le due facce del silenzio. È stato come togliermi uno zaino pieno di ferri da stiro dalle spalle. Per me questo è stato morire.
Non so perché sia capitato, ma è capitato e non so dire se sia un bene o un male, perché ancora non ho capito se essere sia meglio di non essere (voci tutte da verificare sostengono che Amleto si aggiri ancora per Villa Borghese ripetendo il ritornello senza soluzione di continuità), ma è capitato.
Il silenzio, ecco quello che nessun medico mi ha mai prescritto e che invece dovrebbe passare gratuitamente il servizio sanitario locale. Benedetto silenzio.
È stato proprio grazie ad una intensiva terapia a base di silenzio, prima, dopo e durante i pasti, che forse sono rinato, o forse mi ha semplicemente salvato la pigrizia. Misteri dell’accidia.
Meglio dei Re Magi, il silenzio mi ha portato in dono la risata, meglio della mirra, ché poi un giorno qualcuno mi spieghi che cosa se ne fa della mirra un neonato. Di pannolini ha bisogno, non di mirra. Sì ridere mi ha fatto fare un salto di ottava. Hai presente la tastiera del pianoforte? Do, re, mi, fa, sol, la, si e poi… di nuovo do, ma un’ottava più in là e non scrivo più in alto, perché avrebbe un sapore di “migliore”, del tutto immotivato. Quel nuovo do è esploso in una risata.
Qualche giorno dopo che sono morto e rinato ero a lavoro e per scherzare spiegavo a dei nuovi colleghi, che io sono l’unico vero sex symbol dell’azienda. Ora, visto che sono uno scorfano, tutti hanno capito la battuta ed abbiamo riso, tranne una ragazza, che rimuginava pensierosa. Non aveva capito la battuta ed era incastrata nel rumore che la costringeva a cercare un modo per dimostrarmi che lei aveva ragione nel pensare che non fossi bello, ma senza offendermi.
Ecco, prima di morire, ero come quella ragazza, incastrato nella ragnatela del cercare di aver ragione.
Basta, ti ho stancato abbastanza. È ora di tirare qualche conclusione, ché se no, logorroico come sono, non mi fermo più e rischio di infilarmi in un tunnel misticheggiante e allora sì che sarebbero problemi.
Non so se il pensiero del suicido sia una malattia, perché la malattia dovrebbe essere un’alterazione di uno stato normale di salute, ma così ci si va a invischiare nelle sabbie mobili della definizione di “normalità” , ma
non eran da ciò le proprie penne.
Posso dire che nella mia normalità è sempre stata presente l’inquetudine e allora, almeno nel mio caso, il pensiero del suicidio sarebbe un eccesso di normalità.
È vigliaccheria? È coraggio? Sono domande sensate se si smette di cercare il senso? Come direbbe il buon Wittgenstein:
La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso.
Per avere una risposta al senso della vita dovrei essere fuori dalla vita, per vederla. Ma essere fuori dalla vita è morire e quanto di più simile alla morte che ho provato è il silenzio, quindi l’assenza di parole e senza parole com’è possibile spiegare?
Lo so, hai ragione a pensare che sia una supercazzola. Ma dopo esser morto ho smesso di voler aver ragione, almeno quando mi rifugio nelle oasi silenziose di risate.
Questa è la mia personalissima esperienza: ridere è il mio vero silenzio, l’unico modo per osservare senza immedesimarmi realmente in nulla, soprattutto senza immedesimarmi nel mio rumore. Io non sono il mio rumore.
Allora la creatività ha assunto anche un valore terapeutico, imparato ad usarla per mettere il rumore che si accumula su un foglio, o su uno schermo o in forma di note, o in quello che più ti piace e che meglio ti riesce. Esprimiti. Dai voce al silenzio.
A te mio caro psicanalista, a cui devo tanto, voglio dire che la soluzione è stata scansarmi e lasciar cadere il muro, che è un altro modo di dire “morire”.
E a te, caro silenzio, devo un enorme grazie, per avermi fatto assaggiare che la vita è diversa da ciò che mi aspetto e programmo, come questo post, che è completamente diverso da come l’ero immaginato.
Dopo tutto questo sermone sono sicurissimo che ricadrò nell’immedesimazione con il rumore, perché già succede. I sentimenti di dolore si riattivano costantemente, il che vuol dire che dovrò morire altre volte, ma ormai ho assaggiato che morire non è poi così male e che il dolore è necessario come la felicità. Ho assaggiato il sapore del suicidio e so che è un pensiero come gli altri, e che, come ogni altro pensiero, avrà un inizio, uno sviluppo ed una fine.
Ma ormai c’è anche il silenzio che mi assicura che io non sono schiavo di quel rumore e che posso osservarlo con la stessa partecipazione con cui si osservano le volute del fumo.
Quando morirò di nuovo? Boh. So solo che se a questa domanda riesco a togliere il sottofondo di paura, a volte si trasforma in senso di avventura.
Suicidio, ben tornato. Che hai da dirmi stavolta? Ti va un caffè? Ah no, dimenticavo che il caffè ti rende nervoso.
In poche parole ho imparato che tentare di sconfiggere il mostro con la forza e la volontà è inutile, perché lui si nutre della mia forza e della mia volontà. Lo guardo in silenzio, finché non diventa grottesco e da ridere.
N.B. Attenzione, non sostengo che andare dallo psicanalista, o assumere psicofarmaci sia inutile. Tutto il contrario. Lo raccomando assolutamente. Dico solo che con me non ha funzionato. Magari perché l’ho fatto per troppo poco tempo, o chissà perché.
/…ridere è il mio vero silenzio, l’unico modo per osservare senza immedesimarmi realmente in nulla, soprattutto senza immedesimarmi nel mio rumore. Io non sono il mio rumore…/
Grazie…ne avevo bisogno…ti voglio tanto bene!!!:-*
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Non sei scorfano, sei diversamente bello.
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Sono bello dentro, me l’ha detto il mio gastroenterologo.
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