«Hybris» di Antonio Rezza e Flavia Mastrella
A parte il fatto che andare a teatro fa proprio bene alla salute ed ogni medico degno di questo nome dovrebbe prescriverlo, sia a digiuno che dopo i pasti, ieri io e Valentina siamo andati a vedere «Hybris» di Antonio Rezza e Flavia Mastrella al teatro «Vascello» di Roma.
«La veranda è l’ultimo disperato tentativo del fuori di tornare dentro» dice il corpo di Antonio Rezza, che è già di per se teatro snodabile, mentre trascina sul palco una porta che apre continuamente distruggendo il confine tra fuori e dentro.
«Hybris» di Antonio Rezza e Flavia Mastrella è subito assenza che preme per entrare sulla scena della consapevolezza ragionata, vestita di dialogo ininterrotto, in uno sforzo che, se non fosse comico, sarebbe una tragedia. Forse sono la stessa cosa? Una tragedia del significato che non riesce a trovare neanche una piccola sedia per fermarsi a riprendere fiato, ma trova solo complessi edipico-edilizi. Il personaggio di Rezza infatti si accoppia di continuo con la madre, per via del poco spazio fisico/semantico a disposizione. Si sa che l’esiguità topografica è la maggior causa di violenze domestiche, così come, parole di Rezza, la maggior causa dei divorzi è il fatto che uno dei due della coppia non sia Rezza stesso.
«Hybris» è un continuo stress logico che non lascia un attimo di respiro, un caleidoscopio psico-epistemologico che ti strappa dal teatro, per gettarti dentro la tua stessa coscienza, solo che «non puoi esserci, perché ancora non sei arrivato e se fossi arrivato non te ne accorgeresti, perché ancora non sei stato presentato».
«Hybris» è l’orgogliosa tracotanza dell’essere umano che vuol coprire l’esistenza con la rete del significato, una rete che però ha maglie troppo larghe ed il mondo ci sguazza dentro/fuori con una risata che seppellisce tutto e tutti. È il paradosso dell’indicibilità del fondamento del vivere, che si mostra però solo nel dirlo. E il re è nudo.
Come se non bastasse, chi ti vedo in prima fila? Stefano Bollani e Valentina Cinni. Mi armo di coraggio, indosso il miglior sorriso che ho nell’armadio, mi piazzo di fronte a loro e riesco ad esprimere tutta la mia ammirazione con un prolisso e interminabile «Grazie», che ottiene un garbato sorriso di circostanza, di quelli che si fanno ad un matto da tranquillizzare, prima che si spogli nudo e cominci a cantare «Nostalgia canaglia».
«Amore mio anche tu ti senti stanca da tanta bellezza?» chiedo alla mia Valentina, mentre tento di ritrovare dove abbiamo parcheggiato e lei mi guarda con lo stesso sguardo di Bollani.