12 punti dell’autorealizzazione

Siccome va tanto di moda sul uèbb fare post a punti elenco, chi sono io per sottrarmi a questo dovere morale?

Ecco allora 12 punti che secondo Abraham Maslow hanno l’odore dell’autorealizzazione.

  1. maggiore tendenza alla riservatezza rispetto alle persone comuni;
  2. capacità di accettazione di se stesso, degli altri e del mondo;
  3. particolare autonomia critica rispetto alle pressioni dell’ambiente culturale e sociale;
  4. propensione all’azione sulla base di motivazioni da accrescimento piuttosto che sulla base di motivazioni di carenza;
  5. resistenza spiccata a lasciarsi influenzare dalle soddisfazioni esterne e dai giudizi altrui;
  6. disponibilità piena ad affidarsi alle proprie potenzialità o risorse cognitive;
  7. capacità di vivere esperienze non comuni ed emotivamente intense;
  8. comportamento e stile di vita «democratico» segnato da un senso «filosofico» dell’umorismo (l’individuo pienamente realizzato non ironizza sulle condizioni umane che generalmente provocano ilarità, sorride piuttosto della condizione della realtà umana in generale);
  9. capacità di stabilire legami affettivi profondi con poche persone;
  10. capacità di liberarsi dei pregiudizi e di rispettare il pensiero degli altri;
  11. capacità di distinguere tra mezzi e fini;
  12. capacità di mostrarsi disponibile al mutamento, all’autocritica, alla modificazione di sé.

Quanto punti parlano di te?

La guerra dei batteri

Cronaca di una guerra microbiologica annunciata

Una guerra è utile alla microbiologia? Domanda strana? Per rispondere, ti porterò negli ultimi decenni del XIX secolo quando, sullo sfondo della guerra franco-prussiana, due scienziati danno vita ad un conflitto microbiologico per stabilire chi per primo abbia verificato scientificamente che le malattie infettive sono trasmesse dai microbi.

Una guerra tra due menti geniali e due nazioni, in cui l’enzima del positivismo scientifico fa da terreno di coltura dell’epoca moderna della microbiologia.

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Resetta il GPS

Bloccato di nuovo? La storia che stai scrivendo non va avanti?

Quando capita a me, una delle domande che mi faccio per tornare a respirare è: «Non è che niente niente sei convinto di star scrivendo un genere e invece ne stai scrivendo un altro?»

Se è così, allora fermi tutti. È il momento di resettare il GPS. Ci servono i generi.

Il genere è come un tema si srotola in un argomento ed ogni genere ha i propri stili e andamenti codificati.

Anche solo psicologicamente, vuoi mettere sapere che altri scrittori prima di te si sono trovati nelle stesse condizioni e non sono morti, ma ne sono usciti vivi in modi che possono essere catalogati?

Ogni genere impone delle convenzioni al disegno narrativo: valori convenzionali al climax, come ad esempio il finale pessimista nella trama della disillusione; stazioni convenzionali come nel western; eventi convenzionali del tipo uomo-incontra-donna nella storia d’amore; ruoli convenzionali come quello del delinquenti nel poliziesco.

In parole povere: controlla se stai usando il genere giusto, altrimenti fatti una scorpacciata di narrazioni che usano il genere che hai scelto e usalo anche tu.

Scrivi passioni elementari

Il tema deve parlare di passioni il più elementari possibili, quindi quando sei in preda al blocco narrativo, controlla se, scartando il tema come una caramella, dentro ci trovi le passioni che l’homo sapiens prova da quando ha iniziato a lasciare impronte per le grotte: vendetta, libertà, superbia, ambizione, amore e così via.

Più usi passioni così semplici e più lettori coinvolgerai e diminuirai così il rischio di scrivere solo per i tuoi parenti. Questo è ottimizzare le energie.

Sii onesto con te stesso, per prima cosa, e non lasciarti distrarre dai sotto-temi. È naturale che una storia abbia più sotto-temi, ma non devi appoggiarti a loro per uscire dal pantano del blocco creativo, perché altrimenti sembreranno posticci e appiccicati di fretta. I sotto-temi sgorgano come grappoli dal raspo, ma risultano «veri» solo se sviluppano e fanno crescere la totalità del grappolo. Nascono da soli, non sei tu che ce li devi mettere a forza. In fase di riscrittura, puoi anche aggiungerne altri, ma senza mai pestare i piedi al tema principale.

Se hai deciso di scrivere un noir, ti puoi appoggiare alle passioni come la gelosia, o la sete di denaro. Fatti una scorpacciata di storie noir e non aver paura di copiare, perché ogni autore ha un modo di sviluppare il tema attraverso argomenti diversi, ma i temi sono sempre gli stessi dalla notte dei tempi.

Come evitare la scoliosi narrativa

Il tema deve essere il più universale possibile. Altrimenti non ti aiuta rimettere in moto la tua storia.

Quando mi bocco, tipo lucertola, torno al tema, così come chi medita e si trova immerso nella diarrea di pensiero, torna alla respirazione.

Il tema è il respiro della storia che stai raccontando.

Ma qualsiasi tema può aiutarti a rimetterti in moto? Direi proprio di no.

Prendiamo due temi, che come hai capito, deve essere espresso sotto forma di domanda.

Tema namberuàn: cosa succede ad infrangersi volutamente contro l’anima altrui?

Due argomenti su questo tema sono:

  1. «Espiazione» di Ian McEwan ;
  2. «Delitto e Castigo» di Dostoevskij».

Tema nambertù: Lucia, la cugina di zia Teresa, alla fine le ha ritrovate le chiavi della cantina?

Due argomenti su questo tema sono:

  1. le agghiaccianti storie natalizie di zia Teresa;
  2. le risposte da espertona in ritrovamenti acrobatici, sempre di Zia Teresa.

Quale di questi due temi credi che abbia più probabilità di interessare una quantità maggiore di lettori?

Lo so, è una domanda retorica, ma ti fa capire quello che intendo per «più universale possibile».

Quando ti blocchi, fermati a «respirare il tema». Se non lo fai adesso, magari riuscirai a costruire una casa con delle bellissimi tendine in tinta col colore del divano, ma con la cantina piena d’acqua e prima o pi…

Può essere faticoso, tipo ginnastica posturale, ma serve ad evitare la scoliosi narrativa.

Il tema è una domanda

Focalizzare il tema e l’argomento è uno dei modi che utilizzo per uscire dal blocco creativo.

Tema e argomento non sono la stessa cosa. Il tema è «la morale della favola», l’argomento invece è ciò che accade veramente nella storia.

Prendiamo una storia, che spero tu abbia visto, Shrek. È la storia di un orco che, per salvare la tranquillità della palude in cui vive, è costretto ad imbarcarsi in una serie di avventure da fiaba per liberare la principessa Fiona.

Quello che ti ho appena raccontato è il tema o l’argomento? È l’argomento! Eccolo il tema, sotto forma di domanda: «è possibile far uscire dal proprio isolamento un misantropo che non ha fiducia nei sentimenti?»

Un tema si può incarnare in diversi argomenti. In Shrek è il salvataggio della principessa, ma può anche essere la mania per la manutenzione di una macchina, come in «Gran Torino» di Clint Eastwood.

Se non l’hai visto, te lo riassumo brevemente. Walt Kowalski, un veterano della guerra in Corea, è il paradigma dei misantropi. Le uniche sue passioni, oltre alla birra, sono il suo cane e un’auto modello Gran Torino. La sua vita cambia il giorno in cui il giovane vicino Thao, spinto da una gang, rovina l’automobile.

In questo caso, la domanda che il tema genera è la stessa di Shrek, ma è l’argomento, cioè il modo in cui si arriva alla risposta, che è diverso.

Se non hai chiaro il tema della tua storia, il rischio di passare di palo in frasca, o di bloccarti è molto alto, quindi prenditi del tempo per mettere a fuoco il tema e vedrai che poi la tua storia ripartirà.

Il tema di una storia

Quando ho iniziato a scrivere (stiamo parlando del periodo de «L’epopea di Gilgameš»), sfornavo d’impulso pagine su pagine su quelli che mi sembravano i più profondi recessi dell’animo umano, poi mi fermavo, rileggevo e puntualmente appariva la domanda bastarda: «Ma di cosa sto scrivendo?».

Se c’è una cosa che ho capito, è che se vuoi parlare di tutto, alla fine non parli di niente e per evitare questo spreco di energie, devi avere il tema ben chiaro.

Cos’è il tema? No, non è l’argomento della storia.

Il tema è ciò di cui vuoi parlare veramente. È qualcosa di urgente, a cui senti il bisogno di dare una risposta. L’argomento invece è il modo in cui metti-in-scena quell’urgenza attraverso la scrittura di situazioni concrete.

Il tema è «la morale della favola», l’argomento invece l’esposizione di ciò che accade, attraverso l’incastro di azioni una dietro l’altra sull’asse temporale.

Se la tua storia si blocca, o se noti che sta scivolando di palo in frasca, allora fermati e torna indietro al tema, che sicuramente non ce l’hai chiaro neanche tu.

Per metterlo a fuoco, fatti queste domande:

  1. Posso riassumerlo in forma di domanda?
  2. È universale, o interessa solo la mia parentela di primo grado?
  3. Posso esprimerlo usando coppie di passioni elementari, tipo amore/odio, ingiustizia/vendetta ecc.?

Se le risposte sono sempre «no», allora devi rimettere mano al tuo tema.

Usi qualche altro modo per «aggiustare» il tema?

Chi è responsabile per Hitler e per Auschwitz?

Federico II di Prussia, per gli amici «Il Grande», è la causa dell’espansionismo di Hitler, che come lui aveva in testa tre ossessioni maniacali, vale a dire:

  • 1. la fissa per i cani;
  • 2. la claustrofobia da spazio vitale (Lebensraum);
  • 3. l’ansia da invasione della Polonia?

Nel piacevolissimo «Federico il Grande», edizioni Sellerio, Alessandro Barbero (sempre sia lodato) la domanda se la pone e se anche non arriva ad una risposta, comunque si interroga sul perché della «grandezza» del personaggio.

«Grande» per chi?

«Grande» non certo per i parenti, che se non fosse stato il sovrano, l’avrebbero volentieri rinchiuso in una stanza costringendolo a guardare per tutta la vita l’Eurovision Song Contest.

«Grande» non certo per alleati e nemici, perché lui stesso riteneva i trattati della semplice carta straccia.

«Grande» forse per i tedeschi, per aver iniziato la trasformazione della Prussia da terra di confine cavalier-teutonica a Stato che, soprattutto dopo la Guerra dei sette anni, si siede al tavolo dei grandi per decidere spartizioni territoriali, che neanche a Risiko e per aver fatto da enzima a quel patrio senso di appartenenza prussiano, che ben presto farà rima con «tedesco».

Forse l’orizzonte semantico dell’aggettivo «grande», in relazione a personaggi politici, aveva un’estensione diversa da quella che abbiamo ora?

Una cosa è certa, se Federico è stato grande è perché ha dato, nel bene o nel male, una svolta alla storia e con lui si deve quindi per forza fare i conti, cosa che lui stesso fece per tutta la vita, al punto di vedersi attaccata l’etichetta di «tirchio».

I SOLITI SOSPETTI

Ti ricordi che nel post scorso abbiamo parlato di come individuare il tuo lettore ideale? Adesso ti spiego come lo uso per indirizzare in modo pratico la scrittura: creo una vera e propria carta d’identità.

Mettiamo che tu sia uno scrittore di gialli. I lettori di gialli vogliono realismo, immagini crude, molti dettagli. Ogni volta che la tua scrittura si impantana, tira fuori la carta d’identità del tuo lettore e appoggiati a lei. Hai appena finito di scrivere una scena del tuo prossimo bestseller internazionale: «L’ispettore entrò nella stanza e capì che l’assassino di Sonia non poteva essere stato Jack».

Prima di passare alla prossima scena, ridai un’occhiata alla carta d’identità. Gli piace indagare, quindi adora i dettagli. Qui mi sembra ce ne siano pochi. Forse è il caso che la riscrivi.

«L’ispettore entrò nella stanza. C’erano ancora due tazzine. Una con tracce di rossetto e l’altra con molto zucchero depositato sul fondo. Jack era diabetico. Non avrebbe mai messo tanto zucchero nella tazzina».

Quando lavoravo come editor dei cartoni animati, per proporre una serie dovevo avere lo springboard, la descrizione degli episodi in quattro righe ciascuno. In una serie per bambini dai 4 ai 5 anni, un episodio dal titolo «L’invasione degli ultracorpi quantistici» significa fare cilecca. Pensa che fatica buttata sarebbe stata se l’episodio, invece di essere in quattro righe, fosse stato già una sceneggiatura di cinquanta pagine.

Ma come si fa a catturare questo benedetto target? Con il tema e ne parlerò nel prossimo post.

Intanto, please, non è che puoi scrivermi per comunicarmi altri eventuali modi per focalizzare il lettore ideale? Se lo fai avrai in omaggio un buono sconto per l’acquisto della nave da crociera «Costa fascinosa». Giuro!

La veranda è l’ultimo disperato tentativo del fuori di tornare dentro

«Hybris» di Antonio Rezza e Flavia Mastrella

A parte il fatto che andare a teatro fa proprio bene alla salute ed ogni medico degno di questo nome dovrebbe prescriverlo, sia a digiuno che dopo i pasti, ieri io e Valentina siamo andati a vedere «Hybris» di Antonio Rezza e Flavia Mastrella al teatro «Vascello» di Roma.

«La veranda è l’ultimo disperato tentativo del fuori di tornare dentro» dice il corpo di Antonio Rezza, che è già di per se teatro snodabile, mentre trascina sul palco una porta che apre continuamente distruggendo il confine tra fuori e dentro.

«Hybris» di Antonio Rezza e Flavia Mastrella è subito assenza che preme per entrare sulla scena della consapevolezza ragionata, vestita di dialogo ininterrotto, in uno sforzo che, se non fosse comico, sarebbe una tragedia. Forse sono la stessa cosa? Una tragedia del significato che non riesce a trovare neanche una piccola sedia per fermarsi a riprendere fiato, ma trova solo complessi edipico-edilizi. Il personaggio di Rezza infatti si accoppia di continuo con la madre, per via del poco spazio fisico/semantico a disposizione. Si sa che l’esiguità topografica è la maggior causa di violenze domestiche, così come, parole di Rezza, la maggior causa dei divorzi è il fatto che uno dei due della coppia non sia Rezza stesso.

«Hybris» è un continuo stress logico che non lascia un attimo di respiro, un caleidoscopio psico-epistemologico che ti strappa dal teatro, per gettarti dentro la tua stessa coscienza, solo che «non puoi esserci, perché ancora non sei arrivato e se fossi arrivato non te ne accorgeresti, perché ancora non sei stato presentato».

«Hybris» è l’orgogliosa tracotanza dell’essere umano che vuol coprire l’esistenza con la rete del significato, una rete che però ha maglie troppo larghe ed il mondo ci sguazza dentro/fuori con una risata che seppellisce tutto e tutti. È il paradosso dell’indicibilità del fondamento del vivere, che si mostra però solo nel dirlo. E il re è nudo.

Come se non bastasse, chi ti vedo in prima fila? Stefano Bollani e Valentina Cinni. Mi armo di coraggio, indosso il miglior sorriso che ho nell’armadio, mi piazzo di fronte a loro e riesco ad esprimere tutta la mia ammirazione con un prolisso e interminabile «Grazie», che ottiene un garbato sorriso di circostanza, di quelli che si fanno ad un matto da tranquillizzare, prima che si spogli nudo e cominci a cantare «Nostalgia canaglia».

«Amore mio anche tu ti senti stanca da tanta bellezza?» chiedo alla mia Valentina, mentre tento di ritrovare dove abbiamo parcheggiato e lei mi guarda con lo stesso sguardo di Bollani.